Educazione cinofila e relazione con il caneNotizie e curiosità sul cane

I rischi di un approccio medicale alla relazione uomo-cane

L’ordinanza 6 agosto 2013: scredita un’intera categoria professionale e promuove una visione medicale del rapporto uomo-cane

Secondo un’indagine del 2019 condotta da Legambiente il numero di cani presenti sul territorio italiano potrebbe aggirarsi tra un minimo di circa 11 milioni (quelli registrati presso le anagrafi canine) e un massimo di 27 (che, pur vivendo nelle nostre famiglie, non sono regolarmente microchippati).

Un dato già di per sé sufficiente per affermare che questo dovrebbe essere un tema di interesse nazionale, da prendere in considerazione con la massima serietà. Se a ciò aggiungiamo che, con la legge 281 del 1991, «lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione» ci rendiamo conto che ci sarebbero tutti i presupposti per aspettarsi leggi e provvedimenti in merito all’adozione responsabile, che tutelino tanto le persone quanto i diritti animali. Ci si aspetterebbe inoltre che tutti gli attori direttamente implicati nel fare cultura e informazione siano valorizzati, coinvolti, responsabilizzati e incentivati nel portare il proprio specifico contributo. Invece, purtroppo, la realtà è differente e le norme nazionali, sebbene mostrino un crescente interesse sull’urgenza del tema, rappresentano plasticamente tutta la superficialità e l’approssimazione con cui esso è ancora oggi affrontato dalle istituzioni.

L’ordinanza 6 agosto 2013: un’occasione mancata

L’unica normativa italiana che, in qualche modo, affronta il tema del possesso responsabile di un animale ha la forma non di una legge, ma di una ordinanza che si rinnova di anno in anno.

Questa è l’ordinanza 6 agosto 2013: «Ordinanza contingibile ed urgente concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani».

Tuttavia sebbene essa affronti il tema di «acquisire un cane assumendo informazioni sulle sue caratteristiche fisiche ed etologiche», ciò viene fatto con l’unico fine, esplicitamente dichiarato, «della prevenzione di danni o lesioni a persone, animali o cose».

Perché possiamo parlare di un’occasione mancata?

Per diverse ragioni: anzitutto perché si è persa l’occasione per una migliore applicazione della legge 281 la quale promuove la tutela degli animali come cosa importante per sé e non solo in vista di tutelare l’incolumità pubblica.

L’ordinanza invece pare invertire i termini del problema suggerendo che un’adozione responsabile non sia un diritto da garantire ai cani, ma solo un mezzo per tutelare le persone e le loro proprietà.

In secondo luogo l’occasione sembra persa anche per una corretta comprensione del problema che si intende affrontare e delle sue reali cause.

Ed infatti quasi sempre quella delle aggressioni è solo una delle numerose conseguenze di adozioni fatte in maniera superficiale e non informata, dove si sottovalutano i rischi e l’importanza di educare il proprio cane.

Concentrare sul tema aggressioni tutto l’interesse porta a trascurare da una parte aspetti altrettanto importanti per l’incolumità pubblica (come ad esempio i rischi di fuga e gli incidenti causati da paura o da mancanza di educazione del cane); dall’altra anche tutte quelle problematiche di benessere animale che non conducono ad un allarme sociale.

E così il cittadino non è spinto a preoccuparsi dei comportamenti del proprio cane fino a che non vi sia il dubbio che possano rivelarsi pericolosi, rischiando così di trascurare quelli che incidono negativamente solo sulla qualità di vita dei nostri amici (come per esempio la deprivazione di importanti esperienze o il non rispetto delle loro caratteristiche di specie).

Insomma l’ordinanza avrebbe potuto essere un utilissimo strumento per promuovere adozioni responsabili e informate, mettendo in primo piano la questione del rispetto dei diritti e del benessere dei nostri amici e incentivando una maggiore consapevolezza dei nostri obblighi, anzitutto etici e morali, nei loro confronti.

Avrebbe potuto favorire campagne di informazione preadottiva volte ad una reale presa di consapevolezza. Perché una politica veramente efficace dovrebbe basarsi anzitutto sulla prevenzione e questa non può che partire dal dare strumenti di valutazione già prima dell’adozione. Con una seria politica di prevenzione si sarebbero potuti affrontare non solo l’importante tema della tutela dalle aggressioni, ma anche quelli altrettanto importanti del benessere animale, della prevenzione delle problematiche comportamentali e, in generale, dell’impegno che l’adozione comporta. Si sarebbe potuto inoltre agire anche sul tema delle rinunce di proprietà, molte delle quali causate da adozioni poco informate e poco consapevoli.

Per queste ragioni si può parlare di un’occasione mancata e il motivo di ciò è l’aver affrontato il tema in modo superficiale orientandosi su un unico aspetto, quello che fa più notizia e genera più allarme, ma senza indagarne in maniera approfondita le cause e senza proporre una visione più ampia e a lungo termine.

Il patentino: un’arma spuntata che scredita e delegittima gli educatori cinofili

La soluzione proposta quale strumento di formazione per i cittadini è il rilascio del cosiddetto patentino a seguito di un corso di circa 10 ore.

Tuttavia, per come è stata pensata, la politica del patentino è non solo fallimentare, ma anche potenzialmente pericolosa: ciò ha a che fare da una parte con l’immagine che si dà delle figure professionali coinvolte nel fare formazione e informazione, dall’altra del cane stesso e delle responsabilità di chi decide di adottare.

Nel testo dell’ordinanza possiamo leggere che «i comuni e i servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali possono organizzare i percorsi formativi per i proprietari di cani … avvalendosi della collaborazione degli Ordini professionali dei medici veterinari, dei Dipartimenti di medicina veterinaria delle università, delle Associazioni veterinarie e delle Associazioni di protezione animale».

Già da queste righe si può notare come restino esclusi dalla loro organizzazione non soltanto i Centri cinofili o i singoli professionisti dell’educazione, ma anche le numerose Scuole e Federazioni che, a livello nazionale, formano queste figure e, nei propri statuti e codici deontologici, hanno l’educazione e la prevenzione come focus centrali e mission fondative. In altre parole l’ordinanza esclude dall’organizzazione dei percorsi proprio quelle figure che avrebbero maggiore interesse e competenze nell’organizzarli

(ad esempio già intorno al 2010 era stato proposto da FICSS il progetto “Buon Cittadino a 4 Zampe” e già nel 2007 un progetto analogo, il Cane Buon Cittadino, era stato ideato dal prof. Marchesini, direttore della SIUA).

Ma non soltanto i professionisti dell’educazione non sono coinvolti nell’organizzazione, disincentivandoli in tal modo dal proporre tali percorsi e dunque escludendo una fonte potenzialmente molto importante per la loro erogazione.

Ma addirittura l’immagine che di essi scaturisce dalla legge è altamente lesiva, dipingendoli non come dei professionisti seri, che si basano su protocolli di lavoro e su approcci scientifici, ma come dei “praticoni” di cui si può anche fare a meno.

Possiamo infatti leggere (Decreto 26 novembre 2009) che «i comuni, congiuntamente con le Aziende sanitarie locali possono avvalersi anche della collaborazione di educatori cinofili di comprovata esperienza».

Queste figure, in altri termini, vengono presentate come figure facoltative e, per di più, scelte non in base a degli oggettivi requisiti di formazione, ma ad una non meglio definita “comprovata esperienza”.

All’opposto l’ordinanza prescrive invece che «per ogni percorso formativo deve essere individuato un responsabile scientifico tra i medici veterinari esperti in comportamento animale … o appositamente formati dal Centro di referenza nazionale per la formazione in sanità pubblica veterinaria».

Al di là del fatto che fa quasi ridere l’idea che per un corso base di 10 ore rivolto a comuni cittadini possessori di un cane (e in cui certo non si trattano argomenti quali la neurobiologia o la fisiologia del comportamento) si reputi necessaria la figura di un “responsabile scientifico”, figura che non è presente neanche in molti corsi universitari, ciò che appare grave è il fatto che si riconosca una dignità scientifica solo alla categoria medica.

Non solo questo è profondamente delegittimatorio nei confronti di professionisti e scuole che basano la propria formazione e il proprio operato su scienze ampiamente riconosciute quali l’etologia, la pedagogia e, in generale, le scienze dell’educazione e della formazione, dandone l’immagine di semplici praticoni la cui unica formazione è data una non meglio definita “comprovata esperienza”, ma tende inoltre a dare un’immagine distorta del cane e del suo rapporto con l’umano, confondendo i percorsi educativi con la valutazione della salute mentale. Cose certo correlate tra loro, ma assolutamente distinte.

I rischi di un approccio medicale alla relazione uomo-cane

Il compito del Medico Veterinario Esperto in Comportamento Animale (MVECA) è infatti quello di «diagnosticare la presenza di una patologia comportamentale … e progettare l’intervento riabilitativo» (fonte, sito SISCA, Società Italiana Scienze del Comportamento Animale).

In altre parole il MVECA è l’equivalente del medico psichiatra, ovvero una figura medica che si occupa di prevenire e trattare la psicopatologia animale, non di attuare dei percorsi educativi rivolti ai binomi uomo-cane.

Ed infatti, a meno che non abbiano una ulteriore formazione come educatori o istruttori cinofili, i veterinari non svolgono in genere lavori di educazione, ma quelli di valutazione e diagnosi.

E tuttavia, per essere efficace, quello del patentino dovrebbe essere principalmente un percorso educativo per cani e umani, ove fornire competenze e abilità utili per educare al meglio il proprio amico. Altrimenti sarebbe, per fare un esempio, come se a scuola i bambini trovassero a far loro lezione non degli insegnanti, ma degli psichiatri e dunque non figure che trasmettono loro specifiche competenze, ma che ne valutano la salute mentale.

Traspare nell’ordinanza una visione medicale del rapporto uomo-cane, dove il valore di un corretto percorso educativo viene totalmente sminuito così come le figure che dovrebbero realizzarlo.

E dove il cane, in caso di problemi, rischia di essere vittima due volte. Ciò è estremamente chiaro nel come l’ordinanza tratta gli episodi di aggressione.

Infatti i servizi veterinari «in caso di rilevazione di rischio elevato, stabiliscono le misure di prevenzione e la necessità di una valutazione comportamentale e di un eventuale intervento terapeutico da parte di medici veterinari esperti in comportamento animale». Nessun accenno viene fatto ad altre tipologie di intervento né alle eventuali responsabilità umane (causa principale di molti di questi episodi), ma è il cane ad essere considerato a priori un malato mentale da trattare terapeuticamente.

In altre parole, oltre ad essere in molti casi vittima di un umano che non lo ha educato o gestito correttamente, cosa che a nostro avviso, nell’ottica di responsabilizzare realmente i cittadini ad un’adozione consapevole, dovrebbe rappresentare un’aggravante in caso di incidenti, il cane può andare incontro anche ad un vero e proprio TSO.

È chiaro che, così com’è impostata, non solo questa ordinanza scredita un’intera categoria di professionisti cinofili, ma non tutela neanche i cittadini e tantomeno i cani.

Non riteniamo inoltre che tuteli nemmeno i medici veterinari: se anche infatti questa categoria ha nel proprio codice deontologico la tutela dell’incolumità pubblica (come il rischio delle malattie trasmissibili dall’animale all’uomo) certo non è loro prerogativa quella di tutelare l’ordine pubblico da comportamenti riconducibili, nella maggior parte dei casi, a pet mate irresponsabili o disattenti, che attraverso una gestione superficiale mettono in pericolo la sicurezza di cani e persone.

In un’ottica di reale utilità sociale in quello che è a tutti gli effetti, per numeri e implicazioni nella civile convivenza, un tema di interesse nazionale, tutte le figure professionali implicate nel fare cultura cinofila dovrebbero essere non solo incentivate e coinvolte, ma anche valorizzate e responsabilizzate.

Come non avrebbe senso (ed anzi sarebbe estremamente preoccupante) una scuola dove gli psichiatri siano sostituiti agli insegnanti, così lo è una legge che tratta gli educatori non come professionisti seri e formati, ma come semplici figure facoltative e di contorno.

E lo scenario che si delinea per i nostri amici a 4 zampe non è poi così lontano da quello orwelliano della psicopolizia, dove i comportamenti del cane che non si adeguano alle regole non sono indagati e affrontati nelle loro cause, ma semplicemente trattati come patologici.

Riteniamo che ciò non solo non faccia gli interessi né dei cani né degli umani, ma dovrebbe destare anche una certa preoccupazione.

Francesco Cerquetti

Laureato in filosofia, educatore cinofilo e esperto in etologia applicata e benessere animale. Mi occupo anche di divulgazione e sono autore del libro #IOSONOACASA, storie di cani di canile e di piccole magie quotidiane

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