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“Pensare cane”. Elementi per una transizione di paradigma in cinofilia

L’approccio cognitivo comportamentale va per la maggiore sia nella clinica psicologica e psicoterapeutica sia nell’addestramento dei cani nelle varie discipline cinofile

Articolo di di Roberto Mucelli, Istruttore cinofilo, psicologo clinico e dello sport, filosofo. Allevamento di Petrademone, Border Collie e Shetland Sheepdog.

L’approccio cognitivo comportamentale va per la maggiore sia nella clinica psicologica e psicoterapeutica sia nell’addestramento dei cani nelle varie discipline cinofile.

Dopo 44 anni di lavoro come psicologo clinico mi sento libero di affermare che l’approccio cognitivo comportamentale è obsoleto dal punto di vista epistemologico e che non tiene conto della complessità del reale inteso come sfumatura del possibile. Intendo riferirmi  alla epistemologia della complessità e al metodo fenomenologico di indagine.

Ciò che rende di moda l’approccio cognitivo comportamentale sia in psicologia umana che in cinofilia è una quasi totale dipendenza culturale dal mondo anglofono che, per vocazione, tende a semplificare e ridurre al minimo i fenomeni.

L’approccio cognitivo comportamentale, che si fonda sull’epistemologia riduzionista, corre il rischio di perdere la visione d’insieme.

Il  riduzionismo scientifico per quasi due secoli è sembrata la lente attraverso la quale, un po’ alla volta, avremmo compreso tutto l’universo, attraverso un’ingenua fiducia nel progresso a tutti i costi. Consiste, in estrema sintesi, alla riduzione dei fenomeni a schemi di funzionamento semplici e comprensibili, la cui logica sia stringente e sui quali sia possibile condurre esperimenti scientifici. 

La casa del riduzionista presenta un ingresso e un salotto ben arredati e puliti, senza la minima imperfezione.

Nelle altre stanze però si sono accumulati alla rinfusa tutti gli oggetti e i mobili non facilmente organizzabili in maniera chiara e distinta; e polvere, tanta polvere perché sono stanze non utilizzabili.

Un esempio?

Negli anni ’50 del secolo scorso emergevano due importanti scoperte scientifiche: la genetica e l’epigenetica.

La prima forniva sicurezze, stava a testimoniare un’universo meccanicista e prevedibile, del quale saremmo riusciti a capire sempre di più, era solo una questione di tempo e di sviluppo delle tecniche necessarie. La seconda era una disciplina scientifica probabilista, fondata sull’analisi di sistemi complessi per i quali gli eventi sono prodotto di costellazioni di fattori non sempre prevedibili.

Nella genetica, per semplificare molto, abbiamo la certezza che un border collie bianco e nero omozigote se si accoppia con un altro bianco e nero produrrà mai cuccioli con il mantello merle.

Nello studio delll’epigenetica non sapremo mai necessariamente prevedere quali pool di geni saranno silenziati e quali espressi perché questo dipende strettamente dalle interazioni dell’organismo mente/corpo con i suo ambiente, che comunica con i pool genetici attraverso la formazione di catene proteiche. 

Per chiarificare, se l’evoluzione procedesse solo attraverso mutazioni genetiche casuali che poi si fissano nella popolazione perché forniscono un vantaggio evolutivo occorrerebbero millenni per ottenere delle volpi estremamente socievoli. Invece bastano 12 generazioni per ottenere volpi socievoli come cani, basta accoppiare tra loro volpi particolarmente socievoli e sottoposte ad una stretta interazione con l’essere umano. Questi cambiamenti, per essere così rapidi, si trasmettono per via epigenetica.

Tuttavia nelle scuole, non so se negli ultimi anni è cambiato qualcosa, si insegna la genetica e non l’epigenetica.

Perché? Il DNA così come lo conosciamo nella vulgata scientifica, è in realtà il DNA codificante, quantitativamente solo il 5% del nostro patrimonio genetico. Il restante 95%  veniva definito “junk DNA” dai genetisti che non ne capivano il senso e il funzionamento. Hanno gettato nelle altre stanze quella per loro era immondizia solo perché non la capivano. Si tratta di una scelta culturale e anche politica, perché l’epigenetica in realtà già esisteva. Oggi nessuno può più negare che quel 95% di DNA non codificante è al servizio dei processi epigenetici.  

Ciò nonostante, potremmo affermare che il riduzionismo scientifico ha permesso l’evoluzione della scienza così come la conosciamo oggi, con tutti i vantaggi in termini di prolungamento della vita e di comodità del vivere, almeno per quelle popolazioni in grado di adottare lo stile di vita occidentale, pagando però il pegno di un consumo indiscriminato e vorace delle risorse del pianeta; soprattutto il prezzo della perdita di un orizzonte di senso, che comporta a sua volta la perdita della consapevolezza delle direzioni che stiamo prendendo, favorendo un rapporto esclusivamente strumentale e tecnico con il cosmo e con le altre specie viventi.

 Sistemi caotici, sistemi complessi da una parte e  riduzionismo scientifico dall’altra sono definizioni e punti di vista che appartengono a paradigmi scientifici diversi, come sostiene Kuhn in “La Struttura delle rivoluzioni scientifiche”. In determinati periodi dello sviluppo del pensiero scientifico diversi paradigmi si sovrappongono, per poi sostituirsi, sempre tuttavia lasciando una traccia di sé nel pensiero e nella pratica. Il paradigma riduzionista ha le sue radici nel razionalismo dualista cartesiano e nel positivismo, mentre lo studio dei sistemi caotici, la teoria della complessità e l’analisi fenomenologica hanno le loro radici nelle rivoluzioni scientifiche apparse nei primi del secolo scorso con le geometrie non euclidee e la fisica quantistica e nella filosofia di Husserl e Heidegger. 

Il paradigma riduzionista è più datato, ciò non vuol dire automaticamente inferiore o inefficace. Tuttora è il gold standard,  figlio di una cultura anglofona che ne ha fatto la sua bandiera, volta alla estrema semplificazione, alla comprensibilità e prevedibilità del reale a tutti i costi. La cultura anglofona ha importato modelli e pensieri dall’Europa continentale, rielaborandoli attraverso la pragmatica e l’enfasi sulle tecniche per poi ri-esportare il tutto ulteriormente semplificato, tanto da ridurne la credibilità e lo spessore culturale.

L’esempio della Mindfulness

Esempio eclatante è la Mindfulness, ovvero la meditazione buddista spogliata di qualsiasi senso spirituale e ridotta a mera tecnica, testata per i suoi effetti positivi sui sistemi respiratorio, cardiocircolatorio e sul controllo del distrusse in generale, poi raccolta in un brand terapeutico che può essere pubblicizzato e venduto.

Questa cultura, questo modo di vedere il mondo ha poi evidenti implicazioni socio politiche.

Tutto deve essere pragmatico, volto ad ottenere un risultato nel minor tempo possibile, consumando velocemente e rinnovando così richieste per avere sempre di più: 1 tecnica psicoterapeutica diventa tout court 1 teoria; 2 lezioni di chitarra e suoni una canzone; 3 lezioni di addestramento cinofilo e fai agility; 4 mesi di lezione e hai imparato una disciplina e sei in grado di dare il relativo esame all’università; 5 anni e devi cambiare casa, 6 mesi e devi cambiare smartphone; 7 sedute di psicoterapia nelle quali segui con gli occhi l’indice del terapeuta e sei guarito dal trauma. 8 sedute e sali sull’aereo che prima non avresti mai preso, senza minimamente renderti conto del perché e aver collocato il tuo sintomo all’interno della tua storia, in un’orizzonte di senso che ti permetta di leggere qualcosa in più di prima sul tuo inconscio, sulle tue emozioni, sulla tua vita, su tuoi affetti. ) mesi e devi cambiare amante, 10 mesi e devi cambiare la macchina. Quel che è peggio che dopo 11/12 mesi di agility ,dove non riesci perché hai a malapena l’abilità psicomotoria di opporre il pollice all’indice, devi cambiare cane da gara e prenderne uno più performante, brutto e secco, che però fa 7 metri al secondo. Homo Faber, non più Sapiens, prontamente votato al ciclo senza fine di produzione e consumo.

In questo contesto culturale e politico il border collie, per le sue particolare caratteristiche di razza, rischia di essere ridotto da un fenomeno da baraccone, vittima di infiniti tricks, clicker training e varie tecniche di addestramento.

Diventato di moda, cercato perché “è il cane più intelligente”, senza domandarsi minimamente cosa significhi veramente e soprattutto quali siano le conseguenze della sua “intelligenza” a livello comportamentale e relazionale. 

Anche gli sport cinofili come l’agility, rischiano di farne una macchinetta da esibizione o da podio. L’idea di fondo è semper quella di ottenere prestazioni sempre più avanzate nel minor tempo e con la miglior efficacia possibile, consumando rapidamente un obiettivo per poi porne un altro.

 

Se vuoi addestrare un cane ciò che conta è pensare da cane.

Per questo occorre vivere in mezzo ai cani non solo lavorarci.

Ciò che conta, come insegnano I pastori, è conoscere gli animali da fattoria e da allevamento, conoscere i selvatici, conoscere la montagna attraverso lo sguardo del cane, che non è uno sguardo, ma prevalentemente percezione olfattive. 

Gli istruttori che non hanno  modo di esperire tutto questo perché vivono in città con uno o due cani che portano al parco dovrebbero poter fare esperienze periodiche di relazione con il loro cane in questo tipo in luoghi che consentono quel tipo di esperienza, il che faciliterebbe la loro possibilità di “pensare cane”.  Avere a disposizione la montagna o la campagna con un branco di cani è comunque solo una facilitazione, non  conditio sine qua non. 

Anche per chi è in grado di fare lo sforzo di spogliarsi delle categorie mentali umane e osservare con umiltà, provare a immaginare, spendere tempo inutile, non produttivo si apre la possibilità di “pensare cane”. Questi passaggi  fondamentali nella formazione di un educatore cinofilo permettono poi di formare a loro volta i clienti a fare uno sforzo di empatia, pensiero analogico, immedesimazione in un mondo canino.

Ciò che conta non è il consumo immediato, imparare velocemente attività cinofile, ma costruire un linguaggio comune. Non dovrebbe essere difficile, considerato che le nostre specie sono simbionti da almeno 30.000/15.000 anni. 

Linguaggio comune che accomuna specie diverse. SI, un vero e proprio linguaggio, non semplice comunicazione o relazione, quindi un sistema complesso di segni e significanti che rimandano a una struttura comprensibile a chi la articola e nella microcomunità di riferimento. 

Provo a spiegare con un esempio.

Roma, Piazza Baldini.

Pomeriggio di una primavera fortunata perché piovosa.

L’acqua è vita.

Quando piove perfino Roma sembra pulita, le strade miracolosamente sembrano linde e l’odore di ozono nell’aria soppianta per pochi attimi la pesantezza acida del sovrabbondante CO2.

La luce del sole ha finalmente smesso di manifestare la sua crudeltà, mentre nei palazzi cominciano a comparire i mille occhi delle finestre debolmente illuminate, ciascuna testimone di un mondo, di un’intimità familiare che incuriosisce come una creatura unica, speciale, che si vorrebbe conoscere sbirciando dentro e captando una voce, dei movimenti, parti di arredo; come se da quei pochi segni si potesse dedurre un intrecciarsi unico di vite, di storie, mentre la mente vaga, individuando per ciascuna finestra una narrazione che racconti le meraviglie del possibile.

Nell’angolo nord-est della piazza un portico protegge dalla pioggia un uomo ed un cane. L’uomo sembra il prodotto paradossale ed inquietante di un portale spazio-temporale.

Si tratta di un uomo già anziano, ma forse meno anziano di quel che sembra; indossa un trench color caki aperto sul davanti in modo da lasciar vedere un incipiente sovrappeso.

Lenti spesse e montatura nera grossolana tengono imprigionati i suoi occhi, tanto da far sembrare che non stia osservando nulla in particolare. Chi ha vissuto gli anni ’60 non può non ricordare il Tenente Sheridan degli sceneggiati televisivi; quest’uomo sembrava appena uscito da una vecchia tv a valvole che trasmetteva in bianco e nero. 

Ai suoi piedi un cane, un meticcio di taglia medio piccola e razza indeterminata, dove le orecchie pendule e l’alternarsi di macchie bianche e color fegato sul pelo fanno intravedere un’antica origine da caccia; gli occhi tondi e buoni si guardano intorno con un senso di fiducia per quello che lo circonda. 

L’uomo tira fuori di tasca un fazzoletto, ed anche questo gesto si perde negli anni ’60. Credo che oggi non giri più nessuno con un fazzoletto in tasca; dispiegati i lembi del fazzoletto, comincia ad asciugare il suo cane, con gesti lenti, pacati, amorevoli e minuziosi. Inizia dalla testa, sulla quale passa il fazzoletto aperto con un movimento che somiglia più ad una carezza che a un vero atto funzionale. Il cane, ai miei occhi è già asciutto, se paragonato ai miei cani quando torniamo da una passeggiata di pioggia montanara.

Tuttavia il gesto di quell’uomo, ripeto, non sembra condurre segni di un’attività funzionale, ma segni della narrazione di un affetto, di una sollecitudine profonda, di una trama reciproca volta a sottolineare l’importanza di quel legame, in mezzo a tanti altri possibili.

Le combinazioni dei segni delimitano infatti la sfera del possibile, perché è chiaro a tutti gli astanti della piazza che tra quelle due creature, e solo tra quelle due, c’è un legame particolare, ed i segni si articolano in una forma di linguaggio, comprensibile a chi non voglia essere totalmente sordo e cieco. Il cane, con la lingua lievemente penzoloni per la passeggiata appena terminata, sposta la sua testa all’indietro come per incontrare la mano che gli sta passando il fazzoletto dispiegato sul cranio piatto, tende la parte posteriore delle labbra scoprendo i denti ma non per minaccia, altrimenti avrebbe tirato su tutto il labbro superiore e scoperte le gengive per sfoderare i canini, la sua arma di difesa e predazione. Ora si intravede un dolce dondolio del corpo, segno, di solito, che la coda sta roteando; allora il mio sguardo scorre lungo il corpo, cicciottello come quello del suo umano, giù verso la coda, che in effetti fende l’aria destra-sinistra all’altezza della colonna vertebrale.

L’uomo ripiega il fazzoletto e si avvia rollando goffamente con il suo cane lungo il portico, forse verso casa, verso un futuro che vedrà uno dei due terminare la sua esistenza prima dell’altro e lasciare gocce di memoria, da distillare piano. 

Linguaggio o comunicazione?

I comportamenti di accudimento reciproco in psicologia vengono identificati non solo per il loro carattere meramente funzionale, ma come complessi sistemi di segni che permettono di regolare la tensione emotiva, di segnalare la particolare posizione sociale di due o più individui rispetto a un gruppo, di ribadire e rinforzare i sistemi di attaccamento inter-soggettivi. 

Solitamente vengono studiati all’interno della stessa specie, tuttavia i comportamenti di accudimento reciproco tra uomo e cane sono un’esperienza comune e condivisa da 30.000/15.000 anni a questa parte. 

I cani utilizzano grooming, licking ed il morso inibito; stessi comportamenti che adottano verso i cuccioli come verso adulti del branco a cui sono affettivamente legati; gli uomini utilizzano con i cani baci, abbracci e carezze, che non sono parte del repertorio genetico-istintuale dei cani ma che questi imparano ben presto a conoscere, apprezzare e richiedere. Quelli descritti non sono semplici comportamenti “spot”, in sequenza uno dietro l’altro, ma sono legati e veicolati attraverso un complesso sistema di segni e retroazioni, come un canto amebeico; uno stare insieme duale che invia segnale ed include anche la micro-comunità di appartenenza. 

Questi segni sono conoscibili, ripetibili e può esser loro attribuito un significato condiviso. Siamo in presenza di un linguaggio naturale, non verbale e non notazionale. Senza questo aspetti linguistici non verbali, che non sono semplici atti comunicativi perché sono pensiero e modificano il pensiero, non è possibile veicolare l’empatia. Pensiamo alle lebensforme, ovvero le “forme di vita” di cui parla Wittgenstein. 

Per tornare al nostro uomo “anni ’60” di piazza Baldini e al suo cane, siamo di fronte ad un semplice esempio di vita quotidiana, in cui si articola un linguaggio interspecifico. Esistono forme di vita in cui il linguaggio interspecifico si articola con set di segnali molto più complessi, che utilizzano il veicolo verbale come il veicolo gestuale e posturale, ma non quel veicolo olfattivo in noi umani quasi totalmente atrofico: l’agility dog è una prova sportiva in cui il cane deve superare nel minor tempo possibile e con il minor numero di penalità un percorso ad ostacoli sempre diverso senza averlo mai provato prima, condotto da un umano che ha avuto modo, prima della gara, di fare un giro di ricognizione senza cane; lo sheepdog, diventata una prova sportiva ma attività tradizionale utilizzata dai pastori delle isole britanniche per condurre il gregge; la ricerca in superficie, su valanghe e su macerie, che non sono sport ma salvano vite umane. In queste attività, e molte altre, che vanno dall’antidroga, alla repressione del traffico illecito di animali selvatici, alla ricerca in superficie di evasi e fuggitivi, alla repressione dell’esportazione di denaro contante, così come alle più “leggere” ma non banali disc dog e dog dance, è predominante lo scambio di segni tra le due specie degli umani e dei cani, ovvero l’articolazione di veri e propri linguaggi che vanno al di là dello stimolo-risposta e del condizionamento operante teorizzati dagli studiosi del comportamento umano ed animale; vanno oltre perché si tratta di set di segnali complessi, soggetti a decodifica ed interpretazione, che presuppongono un contesto di legame ed interazione sul piano motivazionale ed affettivo, ovvero un contesto in cui essere inscritti. 

Milioni di umani trascorrono la loro vita accanto ad animali non- umani. Il nuovo millennio si apre con un rinnovato interesse da parte degli umani verso il loro compagni di viaggio: è in crescita il numero degli umani che scelgono una dieta vegana o vegetariana per motivi legati al rispetto della vita degli animali non-umani, non solo per motivi salutistici o di sostenibilità nei confronti di un pianeta Terra fortemente messo alla prova per quanto riguarda l’estrazione senza limiti di risorse. Si ricerca sempre di più lo sviluppo di nuove forme di empatia e di costruzione della convivenza all’interno della casa comune che è il pianeta.  Se Wittgenstein individua nel suo testo “Ricerche Filosofiche” la possibilità che esistano diversi giochi linguistici, non solo quelli ascrivibili alla logica formale e matematica, se questi giochi linguistici possono riferirsi non solo al linguaggio verbale ma alla sovrapposizione ed intersecazione complessa di verbale, mimico, gestuale, musicale, iconico ed immaginale, allora possiamo dire che i giochi linguistici ci mettono di fronte a forme di vita  

Per converso, forme di vita possono presentare alla nostra attenzione giochi linguistici anche non verbali. L’idea fondante è che tali forme di vita coinvolgano specie diverse nell’atto di interpolare linguaggi e di costruirli come ponti necessari per condividere l’esistenza. 

Per tornare agli esempi pratici, ho visto cani che, secondo la loro famiglia umana erano aggressivi verso altri maschi e tiravano al guinzaglio come forsennati, però erano in grado di fare agility.

Cani immessi in un percorso strutturato che parte dalla puppy class e procede inesorabile verso le acquisizioni comportamentali e cognitive necessarie a praticare uno sport o un’attività cinofila.

Famiglie a cui nessuno spiega, dopo aver parlato a lungo con loro ed aver colto il linguaggio interspecifico che li lega al loro cane, che quel cane è solo spaventato dalla loro ansia verso il mondo e che è deciso a proteggerli a qualunque costo, perché proteggere loro significa, evolutivamente, proteggere la struttura di attaccamento che gli permette di sopravvivere e, in un ottica non solo neo-positivista, proteggere le persone a cui la propria anima è legata per la vita. Famiglie a cui nessuno spiega che andare al guinzaglio insieme è come una coppia di innamorati che si tiene per mano e non un semplice atto costrittivo

Famiglie a cui nessuno spiega che per andare a guinzaglio insieme si deve prima costruire un linguaggio interspecifico condiviso, esattamente come il linguaggio del corpo di due innamorati che si tengono per mano.

E’ del tutto evidente che i cani con la pallina o la treccia si divertono e che questo gioco insieme è un pretesto per una relazione intima condivisa. Nell’ottica della complessità l’ uomo ha modificato il cane quanto il cane ha modificato l uomo, e questo è ampiamente dimostrabile, per questo uso la metafora di cane e uomo come specie simbionti. La “natura” non esiste di per se ma è frutto di evoluzioni progressive. Osserviamo i lupi a caccia: i border collie lavorano in un modo simile, solo che il 4o stadio della predazione, l’attacco finale, è inibito. Anche dividere le pecore è figlio del separare una preda dal gregge per poterla aggredire più facilmente. La apparente ossessione per la pallina o per le pecore è istinto predatorio di sopravvivenza da gioco e lavoro condiviso con l’umano si può veramente trasformare in ossessione, in dipendenza tossica in funzione di come lo dosiamo e dei motivi retrostanti al perché compiamo queste attività con il nostro cane. 

E’ altrettanto evidente che qualche trucco comportamentale facilita e accelera la costruzione di una relazione e di un linguaggio comune, soprattutto con il cucciolo.

Non si tratta quindi di lasciar cadere tutto il mondo che va per la maggiore in cinofilia ma di articolare una prospettiva di figura-sfondo, in cui il cognitivo comportamentale è solo una tecnica, sullo sfondo del linguaggio comune interspecifico.

Il cognitivo-comportamentale è la vittoria della Tecnica sulla Verità: cito il filosofo Emanuele Severino: «La tecnica, per essere potente, deve abbandonare la verità, che è come un masso in mezzo alla strada. Per andare avanti, il masso deve essere tolto di mezzo».

Qundi, cari colleghi istruttori e allevatori, cari cinofili, proviamo a fare un esperimento per sviluppare il nostro senso critico: prendiamoci una settimana, un mese, di sabbatico da palline, premietti, trucchetti comportamentali e iniziamo a guardare alla relazione e ll linguaggio comune, considerando i trucchetti comportamentali solo come un pretesto per fondare la relazione e costruire il linguaggio interspecifico.

Prendiamoci una settimana, un mese per “pensare cane”, mettendo da parte l’efficienza e rapidità dei risultati per poter consumare prima possibile un altro obiettivo da raggiungere.

Prendiamoci tempo, perché i cani, queste anime belle, di tempo di vita ne hanno poco rispetto a noi, e vogliono vivere con noi, per noi, a loro non importa di raggiungere obiettivi,  se non quelli legati alla sopravvivenza e al benessere personale e di branco, lo fanno solo per poter stare con noi ed essere felici della nostra felicità.

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