Linguaggio del cane: l'importanza dei segnali calmanti
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Capire i segnali calmanti nei cani, oltre il mito di Turid Rugaas

Il mito di Turid Rugaas e l’origine dei segnali calmanti

Quando si parla di segnali calmanti nel cane subito il pensiero corre al famoso testo L’Intesa con il Cane di Turid Rugaas e in molti pensano che si debba a questa autrice la scoperta di tale forma di comunicazione.

Basta poi fare una piccola ricerca on line sull’argomento per notare che, sotto la voce “segnali calmanti” appaiano esclusivamente risultati sul comportamento del cane e, di conseguenza, a Rugaas che per prima vi ha fatto rifermento.

Insomma, complici anche le logiche di internet, che sicuramente mettono ai primi posti nelle ricerche proprio quegli argomenti che più spesso vengono ricercati dai lettori o per motivi legati alle tecniche sul posizionamento nei motori di ricerca, sembra oggi impossibile, per un utente medio ma anche per chi, maggiormente formato, voglia approfondire questo argomento, rintracciare qualsiasi informazione ulteriore o precedente sulla formulazione della teoria dei cosiddetti calming signals.

Si arriva così al paradosso di pensare che si debba a questa autrice non soltanto la scoperta di quali sono questi segnali nei cani, ma in generale l’intera formulazione della teoria.

L’importanza degli studi zoologici ed etologici per comprendere i cani

E si può parlare di un vero paradosso perché ci dimostra da un lato come ancora oggi lo studio del cane resti qualcosa di sostanzialmente diverso e distaccato dagli studi zoologici ed etologici in generale, cosa che può condurre ad importanti lacune nella comprensione proprio dei comportamenti dei nostri amici e delle loro similarità o differenze rispetto ad altre specie animali; dall’altro come possano poi diffondersi teorie incomplete, quando non addirittura sbagliate, che sembrano tirate fuori dal cilindro di qualche prestigiatore più che il frutto di un’evoluzione del pensiero che ha i suoi precedenti e dai quali potrebbero, più o meno a ragione, discostarsi.

E così, ad esempio, nella vulgata comune termini e concetti nati con sensi diversi, possono andare a sovrapporsi e confondersi tra loro quando in origine non era così.

La confusione tra segnali calmanti e segnali di pacificazione

È questo per esempio il caso dei termini “segnali calmanti” e “segnali di pacificazione” che spesso, su diverse pagine on line, ma anche su molti blog di esperti cinofili, vengono utilizzati come sinonimi sovrapponibili tra loro, senza chiare distinzioni e senza una particolare ratio sul quando utilizzare l’uno oppure l’altro.


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Può in questi casi tornare utile la buona e sana vecchia lettura del cartaceo, ovvero di quei testi che, benché pilastri della cultura in ambito di zoologia e analisi del comportamento animale, furono scritti ben prima della rivoluzione digitale e i cui contenuti non trovano adeguato posto nei motori di ricerca. O che magari lo trovano, ma per ragioni diverse rispetto all’innovazione che hanno rappresentato.

Ritorno alle origini: il contributo di Desmond Morris e “La Scimmia Nuda”

Desmond Morris e “La Scimmia Nuda”

È questo il caso di un testo scritto da un importante zoologo nel 1967: si tratta de La Scimmia Nuda di Desmond Morris.

Desmond Morris e “La Scimmia Nuda”

Tornato in auge qualche anno fa non per le riflessioni in esso contenute, ma grazie a un pezzo musicale di Gabbani e allo scimmione travestito che gli ballava accanto, questo testo rappresenta in realtà un caposaldo della letteratura scientifica: non soltanto perché per la prima volta si provava ad guardare anche la nostra specie da un punto di vista zoologico, e dunque osservandone i comportamenti e l’evoluzione così come si fa per tutti gli altri animali, ma anche perché se ne indagavano i comportamenti in un quadro di comparazione, dove le diverse specie sociali possono essere accomunate dall’aver sviluppato similarità evolutive.

L’analisi che qui ci interessa è ricompresa nell’ambito generale di quelli che possono essere i comportamenti conflittuali all’interno dei gruppi sociali.

Comportamenti conflittuali e l’importanza del contesto

In altre parole la teoria dei segnali calmanti va inserita all’interno di una cornice ben specifica del comportamento animale, soltanto alla luce della quale essa è comprensibile ed acquista un senso.

Questa è quella dei conflitti e degli scontri che possono avvenire tra i membri di un gruppo sociale, come quelli gerarchici, per l’accesso alle risorse o per la riproduzione.

Essa ad esempio non ha particolare senso in un rapporto tra predatore e preda e solo parzialmente negli scontri che possono avvenire tra gruppi diversi.

Le diverse fasi temporali dei conflitti secondo Morris

Ma questo non è tutto perché non ha molto senso nemmeno estrapolare una teoria dei segnali calmanti da un contesto più ampio che è quello dei comportamenti ritualizzati, ove due poli della comunicazione contrapposti sono sempre presenti e sono da una parte i comportamenti di minaccia e attacco, dall’altro quelli di sottomissione. Questi ultimi, infine, vanno analizzati e suddivisi tra loro in base alle finalità e al momento della loro attuazione.

Per questo Morris parla, più in generale, anche di “attività di spostamento” e suddivide i conflitti nelle loro diverse fasi temporali.

Forse può essere utile leggere le sue stesse parole: “Esiste un’altra fonte importante di segnali particolari che nasce da un tipo di comportamento a cui è stato dato il nome di attività di spostamento. […] L’animale talvolta presenta forme di comportamento strane e apparentemente non appropriate come se […] trovasse sfogo all’energia contenuta in un’altra attività completamente diversa. Il suo impulso a fuggire blocca quello ad attaccare e viceversa e così esso scarica le sue sensazioni in qualche altro modo. Talvolta si possono vedere dei rivali che, mentre si minacciano, improvvisamente eseguono dei movimenti alimentari elaborati e incompleti per ritornare quindi immediatamente ad atteggiamenti reali di minaccia, oppure si grattano o si puliscono […]. Alcune specie, come attività di spostamento, eseguono movimenti di costruzione del rifugio […]. Altri invece si abbandonano ad un “sonno istantaneo”, ripiegando il capo in posizione di riposo, sbadigliando e stiracchiandosi. […] Queste attività […] sono diventate rituali ed insieme forniscono all’animale un vasto repertorio di segnali di minaccia. Nella maggior parte degli scontri, sono sufficienti a risolvere la controversia senza che i contendenti arrivino a colpirsi. Se però il sistema fallisce, come accade spesso in condizioni di eccessivo affollamento, allora segue un vero combattimento e i segnali cedono il posto ai meccanismi brutali di attacco fisico”.

Naturalmente queste considerazioni non riguardano specificamente i cani ma, in generale, molte specie sociali.

L’emissione di segnali calmanti dopo l’innesco del conflitto

Tuttavia già da questi primi passi si può notare che alcuni comportamenti, a volte interpretati come calming signals, potrebbero invece essere inseriti nella cornice più complessa di un confronto in cui la possibilità di un’aggressione non è assolutamente scongiurata e dove l’intenzione dei contendenti non è tanto quella di calmare l’altro, ma piuttosto quella di calmare se stessi e di prevenire uno scontro attraverso la minaccia, l’intimidazione e la dissuasione.

Tornando a quanto scrive Morris: “le specie in cui si sono sviluppati particolari sistemi per uccidere la preda raramente li impiegano quando combattono tra loro. (A questo riguardo, sono stati commessi gravi errori con false supposizioni circa il presunto rapporto tra il comportamento di attacco verso la preda e le manifestazioni di attacco verso i rivali. Si tratta di due forme molto diverse, sia per la motivazione che per l’effettuazione). Il nemico, non appena è sufficientemente domato, cessa di costituire una minaccia e viene ignorato”.

Per arrivare a parlare di veri e propri segnali calmanti bisogna, secondo Morris, fare riferimento ad una fase successiva del conflitto, ossia quando le forze in campo sono ormai chiarite e si delinea già la presenza di un vincitore e di uno sconfitto. Seguendo il suo ragionamento: “bisogna esaminare un altro aspetto dell’aggressività animale, cioè il comportamento del perdente. […] Egli deve segnalare in qualche modo all’animale più forte che egli non rappresenta più una minaccia e che non intende continuare la lotta. Se va via gravemente ferito o fisicamente esausto, ciò appare piuttosto chiaro, e l’animale vincitore si allontana lasciandolo in pace. Se invece egli riesce a segnalare l’accettazione della sconfitta prima che la situazione sia arrivata a questi disgraziati estremi, sarà in grado di evitare ulteriori gravi punizioni. Questo scopo viene raggiunto mediante la manifestazione di alcune caratteristiche esibizioni di sottomissione che placano l’aggressore e fanno rapidamente diminuire la sua aggressività, affrettando la risoluzione della lite. Il loro modo di funzionare è molto vario. Fondamentalmente i soggetti smorzano i segnali che hanno stimolato l’aggressione e ne mettono in azione altri, chiaramente non aggressivi. I primi servono semplicemente a calmare l’animale più forte, mentre gli altri sono di aiuto cambiando attivamente il suo stato d’animo”.

Distinzione tra segnali pacificatori e attività remotivanti

Come si può notare quelli che vengono definiti “segnali per calmare” sono in genere emessi dopo che, nella mente di un animale, il conflitto è già stato scatenato e quando un soggetto si ritiene sconfitto. Inoltre vengono distinti due particolari tipi di segnale: da una parte quelli volti semplicemente a calmare l’altro, dall’altra dei segnali che tendono attivamente a cambiare il suo stato d’animo. Questi ultimi verranno poi definiti “attività remotivanti”, che dunque si differenziano dai primi sia nella sequenza temporale che come finalità.

Ma come si distinguono queste due tipologie di segnale?

Ce lo spiega ancora Morris: “La forma più semplice di sottomissione è la evidente immobilità. Poiché l’aggressività comporta movimenti violenti, un atteggiamento statico segnala automaticamente uno stato di non aggressività. Che spesso si associa ad un rannicchiamento e a un acquattamento. L’aggressività porta ad una espansione del corpo fino alle sue massime dimensioni, mentre nell’atto di acquattarsi avviene il contrario per cui questo ha una funzione calmante. Anche il fatto di volgere le spalle al nemico riesce utile, in quanto è il contrario dell’atteggiamento frontale di attacco. Vengono usate inoltre altre forme opposte alla minaccia. Se una particolare specie esprime la minaccia abbassando il capo, il fatto di alzarlo diventa un prezioso segno pacificatore. Se un assalitore drizza il pelo, abbassarlo serve come meccanismo di sottomissione. In qualche raro caso il perdente ammette la sua sconfitta, offrendo all’assalitore una zona vulnerabile.

[…] La seconda categoria di segnali pacificatori funziona come meccanismo remotivante. L’animale più debole emette dei segnali che stimolano una reazione non aggressiva che, una volta scattata nell’assalitore, sopprime e doma il suo impulso a lottare. Ciò avviene principalmente in tre modi. Un sistema remotivante particolarmente diffuso consiste nell’adottare un atteggiamento infantile di richiesta di cibo. […] Un’altra attività remotivante consiste nell’adottare un atteggiamento sessuale femminile da parte dell’animale più debole. A parte il sesso e le condizioni sessuali, questi assume di colpo la posizione della femmina con presentazione del posteriore. […] Una terza forma di remotivazione comporta la stimolazione di un desiderio di pulire o di essere pulito. Nel mondo animale è molto diffusa la pulizia intesa in senso sociale e scambievole che si associa con i momenti più calmi e tranquilli della vita della comunità”.

Secondo la teoria di Morris, dunque, bisognerebbe parlare in generale di segnali o comportamenti pacificatori anzitutto distinguendoli dalle cosiddette attività di spostamento.

I primi sono attuati successivamente alla lotta o al conflitto, mentre le ultime sono precedenti e volte ad anticiparlo oppure a prevenirlo.

Tra gli stessi segnali pacificatori, poi, bisogna distinguere tra quelli che sono tesi semplicemente a calmare l’altro segnalandogli la propria sconfitta e quelli intesi a ristabilire un accordo e un’armonia sociale con quella che si definisce un’attività remotivane.

Tutto questo, come si può ben capire, può essere di fondamentale importanza nella comprensione del comportamento di un animale. Solo per fare un esempio comprendere se con uno sbadiglio ci troviamo davanti ad un’attività di spostamento (dove ancora lo scontro e il conflitto non viene escluso), piuttosto che a un segnale di pacificazione potrebbe essere di fondamentale importanza nell’evitare un’aggressione.

Allo stesso modo sarebbe importante comprendere che quando un cane emette queste tipologie di segnale verso di noi, siano essi attività di spostamento o segnali pacificatori, ciò vuol dire che si sente attivamente minacciato e interpreta il comportamento dell’umano come la ricerca di uno scontro o di un conflitto. E questo dovrebbe farci sempre e comunque riflettere.

Una prospettiva più ampia per comprendere i comportamenti pacificatori nei cani

Certo esistono fondamentali differenze tra cani e altri animali selvatici: prima fra tutte quella che i cani, in quanto animali domestici, possono considerare l’uomo un referente sociale e un possibile membro del proprio gruppo. E tuttavia questo non toglie che comprendere il conflitto e il come si sviluppa nelle sue diverse fasi è qualcosa di importante in tutte le diverse specie sociali, cane e uomo compresi.

Inoltre esistono sicuramente delle specificità che distinguono tra loro tutte le specie animali e dunque il cane andrebbe studiato nella sua particolarità e nei suoi propri modi di comportarsi e di comunicare.

Spesso gli incidenti con questa specie avvengono proprio per una mancata comprensione dei segnali che ci inviano o da come leggono quelli che noi inviamo loro. E tra i più importanti ci sono quelli che potrebbero farci capire se sono pronti ad attaccare oppure se vogliono in tutti i modi evitare una nostra aggressione.

In molti casi anche piccole differenze, in comportamenti all’apparenza molto simili, possono indicare intenzioni del tutto opposte e molto ancora vi è da fare per una comprensione chiara dei nostri amici.

Spero che questo piccolo contributo possa essere di stimolo a ulteriori riflessioni e, per concludere, vorrei usare le parole di Morris per definire la cosiddetta legge della giungla:

“Quanto più potenti e feroci sono le armi di una specie particolare per uccidere la preda, tanto più forti devono essere le inibizioni a servirsene per risolvere le controversie tra rivali. Questa è la “legge della giungla” per ciò che riguarda i dissensi territoriali e gerarchici. Le specie che hanno mancato di obbedire a questa legge sono estinte da molto tempo”. O, aggiungiamo noi, c’è sempre tempo perché si estinguano in un prossimo futuro.

Francesco Cerquetti

Laureato in filosofia, educatore cinofilo e esperto in etologia applicata e benessere animale. Mi occupo anche di divulgazione e sono autore del libro #IOSONOACASA, storie di cani di canile e di piccole magie quotidiane

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