Approfondisci l'approccio cognitivo alla mente dei cani e riconsidera le concezioni tradizionali. Esplora le teorie comportamentiste, l'etologia classica e scopri come l'approccio cognitivo rivoluziona la nostra comprensione dei cani. Una riflessione sulla soggettività animale che spinge a considerare le implicazioni culturali e etiche.
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Dai behavioristi all’etologia: L’evoluzione dell’approccio cognitivo nella comprensione dei cani e della loro mente

Quando in cinofilia si parla di approccio cognitivo bisogna farlo tenendo numerose attenzioni e soprattutto con delle importanti premesse.

I CANI PENSANO ?

Ci troviamo infatti d’avanti ad una teoria recente che non soltanto va inserita in un ben preciso contesto storico e scientifico, col quale va messa in rapporto per poter essere ben compresa, ma anche che pone importanti questioni culturali ed etiche; questioni con le quali non soltanto gli appassionati di cani dovrebbero confrontarsi.

Sebbene infatti vi siano diverse teorie riguardo l’apprendimento e la spiegazione dei comportamenti animali, in realtà la questione rilevante riguarda un aspetto ancora più basilare: ci troviamo cioè a confrontarci con l’idea che, anche rispetto alle altre specie animali, dovremmo prendere in considerazione l’esistenza di una qualche forma di pensiero.

In altre parole, così come attribuiamo la capacità di pensare e ragionare a noi stessi e ai nostri simili quando osserviamo che da ogni esperienza impariamo qualcosa, che ciò va ad arricchire il nostro bagaglio di conoscenze e che queste poi influiscono sul nostro comportamento, possiamo supporre lo stesso anche per nostri cani (e in generale per altri animali)?

I cani, dunque, pensano?

E se pensano, a cosa pensano? E come lo fanno? Ma soprattutto, se pensano, dobbiamo attribuire loro una qualche forma di individualità, di soggettività o, addirittura una loro mente?

Può un cane avere le sue idee?

Potremmo forse riassumere così uno dei temi principali di quello che viene definito approccio cognitivo alla soggettività animale.

O meglio, se per avere delle idee bisogna essere un soggetto dotato di una propria mente, è possibile attribuire anche ad un cane una propria mente?

approccio cognitivo alla soggettività animale.

La domanda può sembrar banale e tuttavia darvi una risposta, quanto meno da un punto di vista scientifico, è estremamente complicato.

Attribuire agli altri animali pensieri, idee, rappresentazioni del mondo o, addirittura, attribuire loro una mente (seppur diversa dalla nostra) rappresenta un atto di rottura con credenze millenarie e profondamente radicate nel nostro pensiero comune.

La cultura occidentale è infatti strettamente legata ed è stata fortemente influenzata anzitutto dalla dottrina cristiana, secondo la quale Dio non ha concesso agli animali un’anima e dunque di poter accedere al paradiso.

In un’ottica totalmente antropocentrica essi erano considerati nella bibbia soltanto come cose che dio ha messo al nostro servizio e delle quali possiamo usufruire a nostro piacimento.

Ma anche nel mondo scientifico le cose non stanno diversamente.

A partire dal Rinascimento, la teoria cartesiana dell’animale macchina ha caratterizzato il nostro pensiero fino all’epoca contemporanea. Secondo questa teoria non soltanto agli animali non può in alcun modo essere attribuita una mente o un’anima, ma neanche delle emozioni.

Essi erano considerati soltanto come delle macchine molto complesse e sofisticate e addirittura non si attribuiva loro neanche la capacità di soffrire o provare dolore, arrivando ad affermare che i lamenti di un animale sottoposto a esperimenti o vivisezione non fossero altro che cigolii in tutto e per tutto simili a quelli, ad esempio, di un orologio che viene smontato e fatto a pezzi.

Insomma evitare di attribuire ad altri animali caratteristiche che ritenevamo solo ed esclusivamente umane quali una propria soggettività, una capacità di pensare o addirittura una mente o un’anima è stato alla base della nostra cultura per centinaia se non migliaia di anni. E pur se oggi queste teorie possono apparire a molti come passate e superate le cose non stanno affatto così.

Per comprendere questo aspetto è sufficiente analizzare il paradigma che è stato predominante per tutto il ventesimo secolo, ovvero quello comportamentista (o behaviorista: dall’inglese behaviour = comportamento).

Questo non è altro che il celebre modello stimolo/risposta secondo il quale ogni comportamento è frutto della reazione ad un particolare stimolo.

In realtà questa teoria non nega di principio l’esistenza di una mente animale, semplicemente afferma che si può avere una conoscenza scientifica soltanto di fenomeni osservabili.

E poiché ciò che è conoscibile o osservabile di un animale sono solo i comportamenti manifesti e gli stimoli che li hanno causati, ma non i suoi ragionamenti e processi psichici, è su quelli che bisogna concentrarsi perché gli unici in grado di fornire conoscenze scientifiche.

Per comprendere allora un certo comportamento ci si concentrava sullo stimolo che lo aveva causato e sul fatto che esso venisse o meno ripetuto in altri momenti.

Nasceva su queste basi la teoria del condizionamento a partire da Skinner: esiste uno stimolo cui segue come risposta un dato comportamento; se quel comportamento risulta efficacie allora verrà ripetuto, altrimenti verrà abbandonato. La mente del soggetto, ovvero tutti quei processi di ragionamento che potrebbero avvenire tra uno stimolo e la risposta, semplicemente veniva considerata come una scatola nera, una black box che, in quanto non osservabile o indagabile al suo interno, semplicemente non veniva presa in considerazione.

Questa teoria è alla base di tutte le moderne tecniche di addestramento che si fondano sui concetti di premio (anche detto rinforzo) e punizione nell’insegnare un particolare comportamento.

In pratica, secondo il modello behavioristico, non potendo avere accesso diretto al mondo psichico animale, semplicemente si eliminava il problema immaginando un rapporto diretto tra stimoli e risposte. Si supponeva poi che particolari comportamenti, inizialmente espressi in maniera più o meno casuale, venissero associati a specifici stimoli attraverso un meccanismo di premi e punizioni che ne rinforzano alcuni o ne disincentivano altri.

E tuttavia, per quanto semplice e plausibile, la teoria behaviorista mostrava anche importanti lacune.

approccio cognitivo alla soggettività animale.

Essa infatti nasceva nei laboratori universitari, dove tutte le condizioni erano rigidamente sotto controllo in modo da poter misurare gli stimoli e i comportamenti.

E così, ad esempio, tanto un topo, che un cane o un piccione, se messi in una gabbia con un pulsante, imparavano allo stesso modo a premere se a ciò corrispondeva l’erogazione di cibo, oppure a evitare di farlo se invece era associata una scossa elettrica.

Le cose tuttavia si complicavano in un ambiente diverso e all’aumentare del possibile numero di stimoli.

E così la teoria comportamentista non riusciva a spiegare questioni importanti. Ad esempio perché animali di specie diverse, pur se cresciuti in un ambiente simile possano sviluppare comportamenti e stili di vita finanche opposti? Oppure perché anche animali della stessa specie possano avere predilezioni e interessi diversi fin da quando sono cuccioli? O infine perché uno stesso soggetto può essere più motivato a emettere un comportamento in certe situazioni piuttosto che in altre?

A dare spiegazione a questi fenomeni provò un’altra disciplina nata nel secolo scorso: questa è l’etologia classica fondata da Konrad Lorenz.

Il merito di Lorenz fu di aver compreso che l’espressione di un comportamento non riguarda soltanto lo stimolo e la risposta, ma ha a che fare anche con il processo di evoluzione di una specie.

In pratica ogni animale nasce e viene al mondo non soltanto con una particolare conformazione fisica, ma anche dotato di un particolare repertorio comportamentale.

Durante la sua vita questo avrà modo di emergere, manifestarsi e perfezionarsi attraverso l’esperienza, consentendo a quel soggetto di caratterizzarsi non solo come un individuo che ha vissuto certe esperienze, ma come un individuo appartenente ad una specie particolare che, d’avanti alle esperienze, ha maturato un repertorio di comportamenti tipici che lo caratterizzano e lo distinguono da animali diversi.

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In pratica, secondo la teoria etologica, non soltanto di fronte a esperienze e stimoli simili animali differenti possono emettere comportamenti differenti, ma alcuni di questi emergeranno perfino senza alcun tipo di esperienza precedente, perché iscritti, attraverso l’evoluzione, direttamente nel patrimonio genetico.

Si cominciava dunque a parlare di repertori comportamentali tipici di una determinata specie (e per i cani anche di una determinata razza), che la caratterizzano e la distinguono da tutte le altre; del fatto che ogni particolare individuo emetterà tendenzialmente o prevalentemente solo i comportamenti tipici della specie (o della razza) a cui appartiene.

Ma anche il valore degli stimoli esterni sarà trattato in modo diverso.

Se nella teoria behaviorista gli animali emettevano i loro comportamenti in maniera più o meno casuale (per tentativi) in risposta ad uno stimolo, ora quest’ultimo assumerà l’importante funzione di “segnale chiave” in grado di suscitare comportamenti particolari e diversi, funzionali alla sopravvivenza.

In pratica secondo la teoria etologica ogni animale, quando è inserito nel suo ambiente, reagisce con comportamenti tipici a stimoli tipici e questi non sono altro che quei comportamenti che hanno consentito alla sua specie di adattarsi e sopravvivere in quel particolare ambiente.

In questo modo venivano spiegate moltissime questioni che la teoria comportamentista lasciava irrisolte, come il fatto che animali diversi possano reagire diversamente agli stessi stimoli, o che stimoli diversi possano suscitare comportamenti diversi.

Ma ne lasciava aperte alcune essenziali.

Come dovremmo porci di fronte all’idea che anche i cani (e in generale gli altri animali) sono dotati di una propria mente?

Possiamo spingerci addirittura a parlare di anima di un animale?

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E come dovremmo cambiare il nostro comportamento verso di loro se gli attribuissimo caratteristiche che fino ad oggi abbiamo sempre riservato soltanto per la nostra specie?

L’approccio cognitivo rappresenta un primo tentativo di affrontare anche queste questioni parlando apertamente di mente animale.

Secondo questa teoria il comportamento non è semplicemente il frutto di un tentativo più o meno casuale di rispondere ad un certo stimolo, così come affermato dalla teoria comportamentista; ma non è neanche qualcosa che è rigidamente determinato soltanto dall’evoluzione, così come affermato da quella etologica.

Esiste un processo elaborativo, tra uno stimolo e il comportamento che ne segue, che va analizzato e compreso.

Esso trasforma quelli che sono soltanto stimoli fisici ricevuti dal corpo in cose che assumono importanza e significato, ovvero in informazioni. Se la teoria behaviorista semplicemente evitava la questione della mente o del pensiero animale supponendo che, se anche fosse esistita, la mente andava considerata al più come una scatola nera a noi inaccessibile, anche l’approccio etologico sorvolava la questione senza di fatto affrontarla.

Non vi è infatti alcun bisogno di supporre che i comportamenti siano frutto di una mente pensante se possiamo dire che sono scritti nel nostro DNA attraverso l’evoluzione e che si manifestano non appena si presenta il giusto stimolo chiave. Nel primo caso si supponeva che i comportamenti venissero espressi in risposta a certi stimoli in modo casuale e per tentativi, rinforzandosi o estinguendosi poi attraverso un meccanismo di premi e punizioni; nel secondo invece si affermava che i tentativi non sono casuali, ma scelti in base a un repertorio di specie e correlati a particolari stimoli chiave, che li suscitano e li incentivano.

Vi è in entrambi i casi un legame diretto tra lo stimolo e la risposta che rende l’animale molto più simile a una macchina che non a un essere senziente, qualcosa che si attiva spingendo i giusti pulsanti e non in base ad una propria spinta interiore. Il comportamento, in altre parole, non è il frutto di una elaborazione autonoma del soggetto e di una sua scelta volontaria.

Esso si manifesta o in modo casuale attraverso un processo di tentativi ed errori, oppure in un modo rigidamente predeterminato in base a quello che è il repertorio di specie. In ogni caso è lo stimolo che determina la risposta. Nulla, o poco di più. Secondo queste teorie gli animali potrebbero essere considerati alla stregua di marionette mosse da fili.

Il comportamento non è mai considerato come una scelta responsabile e ponderata di un soggetto autonomo e libero, ma è sempre determinato da qualcosa di esterno. Tanto che sia il caso o l’essere umano in un laboratorio, così come affermato dai behavioristi, oppure che sia l’evoluzione e l’esistenza di un repertorio comportamentale innato, come dicono gli etologi classici, a tirare questi fili e dunque determinare il comportamento individuale sarà sempre uno stimolo esterno che, seguito da un meccanismo di premi e punizioni, o di scelta da qualche particolare catalogo, determinerà particolari risposte.

L’approccio cognitivo rappresenta il tentativo di analizzare tutto ciò che avviene tra gli stimoli e le risposte. Rappresenta in altri termini un primo tentativo di analizzare tutti quei processi di ragionamento e di apprendimento che andranno poi ad influenzare il comportamento e che ci fanno supporre che ci sia una mente pensante dietro quella particolare azione.

Ma come è fatta una mente? E come funziona? È qualcosa di separato dal corpo o è un tutt’uno? Ma soprattutto, è possibile dimostrare scientificamente che anche i cani sono dotati di mente?

Quella che secondo i comportamentisti è soltanto una scatola nera che non può essere indagata, quella che secondo gli etologi contiene soltanto una serie di meccanismi di stimoli chiave che suscitano risposte determinate, potrebbe in realtà essere qualcosa di molto più complesso. Potrebbe esservi una soggettività, un individuo pensante che, tra una serie di possibili risposte più o meno determinate, potrebbe scegliere quella che ritiene maggiormente appropriata, o che potrebbe decidere autonomamente di agire anche al di là degli stimoli esterni.

L’approccio cognitivo è un tentativo di analizzare e spiegare il concetto di mente animale. Come tutte le teorie essa è perfezionabile e sicuramente, col progredire delle nostre conoscenze, muterà e cambierà. Ma sicuramente è un primo tentativo che merita di essere ben considerato e conosciuto.

Esso non nasce primariamente come un metodo educativo da contrapporre ad altri metodi, ma come una particolare visione e interpretazione della realtà. Secondo questo approccio parlare di mente animale significa provare a definirla e analizzarla tanto nei suoi meccanismi di funzionamento che nel come essi influiscono poi sul comportamento. Significa “dare una forma” all’astratto concetto di soggettività. Darle delle caratteristiche proprie

A partire da come con l’approccio cognitivo si è tentato di rispondere alla questione dell’esistenza di una mente e di un pensiero animale e di come ha provato a definirli, proveremo in queste pillole di analizzare come questo concetto è stato affrontato in passato dalle diverse scuole di pensiero e come viene visto oggi nella nostra società.

E voi cosa pensate del vostro amico? È per voi un soggetto dotato di una propria mente e di una propria soggettività? Oppure a volte vi capita di pensare che sia più simile a una macchina, seppur estremamente complessa e sofisticata?

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E come ha imparato le cose che sa fare? Le ha scoperte per caso? Oppure erano scritte nel suo DNA? O forse magari c’è qualcosa di più complesso?

E se pensate che esista, come immaginate sia fatta la mente del vostro amico a quattro zampe? Cosa ci mettereste dentro?

Cosa si nasconde dietro quell’ammasso di pelo che scatta e arriva di corsa non appena il suo nome viene pronunciato (o a volte urlato) dalla nostra voce? Cosa lega, in altre parole, un cane al nome che gli abbiamo dato o alla nostra voce? Sono solo meccanismi automatici, rinforzi e punizioni?

Proviamo insieme ad affrontare questo viaggio nella mente del cane…

Francesco Cerquetti

Laureato in filosofia, educatore cinofilo e esperto in etologia applicata e benessere animale. Mi occupo anche di divulgazione e sono autore del libro #IOSONOACASA, storie di cani di canile e di piccole magie quotidiane

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