I segugi scagnano: approfondiamo il perchè?
I segugi scagnano, dunque, ora questo è chiaro. Il discorso merita, a questo punto, un ulteriore approfondimento.
Lo scagno è un codice comunicativo
certo…
C’è però, nello scagno, un valore estremamente emotivo, perché il segugio in realtà scagna anche cacciando da solo: e in quel caso, non è possibile sostenere che, volontariamente, cerchi di comunicare qualcosa ai colleghi di caccia o al conduttore.
Scagna per emozione, scagna perché l’impatto con la braccata è devastante: smuove, appunto, emozione, come noi che ci ritroviamo a gemere o a urlare quando la nostra razionalità va in pezzi e il nostro corpo parla.
Uno dei miei cani, Ugo, di solito scova a vista, riuscendo ad avvicinarsi tantissimo alla rimessa.
Si fa cauto, gli occhi si dilatano, il pelo si drizza fra le scapole, e geme, senza volerlo, emettendo piccoli colpi di voce che sono emozione incandescente fatta vocalizzazione.
L’emozione forza le labbra del segugio, che usa la voce per segnalare l’incontro esatto.
Vorrebbe farlo?
A questa domanda non è facile rispondere.
Certo, il compagno di coppia o di muta crede alla segnalazione del collega, si precipita a verificare, a sua volta interviene.
Il segugio che segnala provoca, probabilmente non volendo, l’intervento del suo compagno: il segugio che interviene sfrutta la segnalazione, ma a sua volta aiuta trascinando il compagno e il gruppo verso il progredire della ricerca.
Perché, come i lupi e a differenza delle altre razze, i diversi individui nel gruppo sono accomunati da due motivazioni: la traccia sempre univoca (è quella la lepre che vogliamo scovare) e l’identità di intenti (raggiungere e inseguire il selvatico).
Talvolta, in segugi particolarmente timidi, o molto giovani, la fiducia nello scagno degli altri provoca danni: lasciano il loro lavoro fruttuoso per accorrere dove qualcun altro, più indietro nelle fasi della caccia, segnala, e quindi valutano male il valore della vocalizzazione altrui – e il valore del loro stesso lavoro, soprattutto.
Tra un colpo di voce e l’altro, dopo l’urlo di scovo, la lepre è rintracciata, e la canizza si snoda.
A questo punto, dovremmo ringraziare gli dei che i segugi parlino: il loro codice sonoro è il nostro unico modo di rimanere in contatto con loro: oltre al gps, perché siamo nel Duemila: ma se il gps non funziona, o non c’è, allora la canizza è il nostro collegamento.
Naturalmente, per un segugio il concetto di collegamento va riveduto e corretto.
Prescinde dalla distanza.
Calanchi, forre, frane.
Il collegamento, facile nelle prime fasi, diventa quasi solo l’ascolto delle voci.
Ci spostiamo, cercando di conquistare posizioni che rendano possibile ascoltare.
Li distinguiamo, e sappiamo cosa stanno inseguendo, a che punto della cacciata ci troviamo.
Sentiamo il grande inseguitore, che sgrana la muta, favorito da forma fisica, talento, genio e doti di velocista.
Sentiamo il silenzio gravido d’angoscia dell’errore, del fallo in seguita: si protrae, talvolta, per mezz’ora: e poi lo scovatore di nuovo squilla, e via.
Non è cosa di mezz’ora, la seguita, non si può fare con l’orologio in mano.
Rimaniamo lì, tremando di emozione: ripartono, ecco, senti – no, questo rientra, rientrano tutti? No, ecco, hanno riscovato…
E poi, scende il silenzio.
I cani, ansimando, rientrano.
Alcuni, splendidi, sull’ultimo fallo, ululano la ‘persa’, un ultimo segnale, un gemito doloroso: non ce la faccio più, ho perduto la traccia. Li richiamate: forza, madamigella la lepre, sei salva: li carezzate: non ora, ma presto…